Fonte: Quotidianosanità.it del 29 Maggio 2017

Prof. Ivan Cavicchi, Università Tor Vergata di Roma

Prof. Ivan Cavicchi, Università Tor Vergata di Roma

A un anno di distanza dalla terza conferenza nazionale della professione medica, due medici vengono radiati nell’indifferenza generale, accusati sostanzialmente di reati contro l’ortodossia. Sputare fuori le proprie contraddizioni non aiuta in alcun modo la professione a crescere. Valutando le decisioni più importanti di questa professione nel corso della sua storia recente si ha l’impressione che essa sia capace solo di farsi del male.

di Ivan Cavicchi
Esattamente un anno fa a Rimini si concludeva la terza conferenza nazionale della professione medica (guardiamo al futuro quale medico, quale paziente, quale medicina nel ssn?).

Le sue conclusioni politiche furono chiare e unanimemente condivise:

  • la professione ha problemi epocali tali da rischiare la compromissione della sua credibilità, del suo prestigio, della sua autorevolezza
  • la strada per riaffermare status ruolo identità funzione è quella della propria ridefinizione cioè un programma di autoriforma.

A un anno di distanza due medici vengono, nell’indifferenza generale, radiati dall’albo professionale accusati sostanzialmente di reati contro l’ortodossia, episodi, che, sfrondati dalle loro tecnicalità (sulle quali non intendo soffermarmi) sembrano essenzialmente preludere ad una medicina tutta scienza ma senza coscienza e quindi priva di buon senso. Obbligare a sottomettersi a dei trattamenti sanitari e radiare dei medici che su questo obbligo incondizionato dissentono, è la stessa cosa. In entrambi i casi si ha una manifestazione di impotenza nel senso che la coercizione vale come fallimento della ragione.

La radiazione dei due medici per me, a parte essere qualcosa di abnorme e di esagerato, è una decisione deontologicamente insussistente e che probabilmente grazie alla magistratura finirà, spero presto, in una bolla di sapone. Tecnicamente essa rientra nella categorie delle “topiche” cioè delle decisioni fortemente inopportune. Ma siccome niente avviene a caso e niente sembra essere privo di significato essa ci dice che:

  • la terza conferenza della professione è stata una inutile kermesse
  • radiare dei medici per reati di opinione ci dice molto sulle difficoltà di questa professione e null’altro
  • che a condizioni non impedite di topica in topica di questa gloriosa professione resterà solo il ricordo

Dentro la riga oltre la riga
Il significato antico della parola “radiazione” (rayier) era quello di “tirare una riga” cioè una soglia invalicabile che se oltrepassata avrebbe causato quale sanzione di massima gravità la soppressione di uno status. Radiare un medico dal punto di vista professionale è una forma di esecuzione capitale cioè una condanna di morte. Condannare professionalmente a morte un medico per le sue convinzioni scientifiche è semplicemente una forma di fascismo giustificato con le regioni dogmatiche e autoritarie della scienza. Cioè bieco scientismo.

Nello stesso tempo condannare a morte una professione è un atto di epurazione che vede un corpo professionale intento non a liberarsi dai medici che oltrepassano la riga, cioè quelli che ad esempio uccidono per imperizia i loro malati o quelli che si vendono all’industria farmaceutica, o falsificano i dati della ricerca scientifica, ma da quelli che, rispetto alla riga, sulla base delle loro conoscenze e esperienze discutono le verità dogmatiche della scienza dubitando di tale dogmaticità.

Questi medici stanno nella riga come si conviene a un medico per bene, ma a modo loro, cioè in modo razionalmente diverso. Ortodossi quindi come gli altri, scientifici come tutti, che hanno gli stessi problemi dei loro colleghi, ma a modo loro cioè “razionalmente” a modo loro.
Medici che radiano altri medici ha il significato di sputare fuori qualcosa che non si tollera più e che a torto o a ragione ormai si avverte come una diversità tossica e dannosa quindi intollerabile. Ma sputare via le proprie diversità, la propria critica interna, le proprie esperienze, i propri dubbi, perché di questo si tratta, significa rischiare di sputare via la possibilità di cambiamento. Sputare fuori le proprie contraddizioni non aiuta in alcun modo la professione a crescere.

E poi se i medici devono stare dentro la riga si deve saper che ogni riga ha le sue contraddizioni perché ogni riga è qualcosa di convenzionale che spesso stride con la realtà. La riga è comunque un confine con una relativa arbitrarietà e oggi viviamo in un epoca, definita della globalizzazione, dove la nozione di confine fa la differenza tra la società che accoglie e la società che rifiuta tra la società chiusa e quella aperta.

Oggi anche la medicina vive la crisi del confine tra ciò che è razionale e ciò che è ragionevole, tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto tra ciò che è e ciò che non è scientifico. E questa crisi non si risolve condannando alla morte epistemica il dubbio, la critica, la riflessione, la ragione.
Il problema quindi non è radiare dei medici che interpretano le righe ma anche con il loro aiuto, ripensare le righe per permettere ai medici di fare davvero i medici e curare per davvero al meglio i loro malati.

Se è vero che, una medicina scientifica, deve necessariamente avere una sua riga (ortodossia) e se è vero che le righe per essere adeguate ai tempi ogni tanto devono cambiare (eterodossia) allora come è possibile un ripensamento dell’ortodossia sapendo che nessuna ortodossia è riformabile senza prima ammettere la possibilità di una eterodossia?

Oggi mentre con indubitabile saggezza l’ordine dei medici di Bologna istituisce una commissione di studio per vedere come sia possibile mettere insieme scienza e coscienza ortodossia e eterodossia a Milano e a Treviso si va per le spicce e si condannano a morte professionale medici che vogliono essere medici in scienza e coscienza, aprendo a mio avviso in modo irresponsabile e stupido una nuova brutta ferita sul corpo impiagato della professione e causando alla professione in quanto tale un danno di credibilità incalcolabile.

Ortodossia e deontologia
Ortodossia come è noto viene dal greco, ortho, ossia “diritto” e doksia ovvero “opinione”, quindi significa “giusta, corretta opinione”.
Eterodossia di converso vale come diverso dall’opinione ritenuta corretta (heteros “diverso” “differente” e doxa “opinione” “dottrina”)
Il reato per il quale i due medici sarebbero stati radiati sarebbe tecnicamente quello di aver espresso pubblicamente opinioni professionali difformi all’opinione ritenuta scientificamente corretta e deontologicamente quello di aver violato una certa ortodossia. Quindi la colpa è l’eterodossia.

Il problema che pongo è semplice: se un medico per essere radiato deve andare oltre una riga il codice deontologico è la riga invalicabile? Cioè il codice è la regola che definisce l’ortodossia? Se si come la definisce?

Nell’art 1 del codice deontologico, si dice, che Il codice di deontologia medica contiene principi e regole che il medico deve osservare nell’esercizio della professione. Quindi non vi è alcun dubbio sul fatto che il codice sia la regola per l’ortodossia.

Nell’art 2 si dice che l’inosservanza delle regole deontologiche quindi dell’ortodossia sono punibili e che le sanzioni, devono essere adeguate alla gravità degli atti, ma nello stesso tempo si dice che il medico deve denunciare all’Ordine ogni iniziativa tendente ad imporgli comportamenti non conformi alla deontologia professionale, da qualunque parte essa provenga.

Nello spazio di questo editoriale per dimostrare la tesi che ho in testa non posso fare una disamina analitica di tutto l’articolato del codice per cui mi limiterò a citare i titoli degli articoli a mio avviso più significativi:
• 13 Prescrizione e trattamento terapeutico
• 14 Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico
• 16 Accanimento diagnostico-terapeutico
• 17 Eutanasia
• 18 Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica
• 20 Rispetto dei diritti della persona
• 21 Competenza professionale
• 22 Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica
• 23 Continuità delle cure

Questi articoli in particolare nelle loro peculiarità e specificità, definiscono senza ombra di dubbio l’ortodossia medica, ma in un certo modo per capire il quale bisogna leggersi bene e a fondo l’art 4. Ma soprattutto questi articoli ci dicono a proposito di confine che tanto l’ortodossia che l’eterodossia fanno parte di una comune impresa conoscitiva e in quanto tali non sono ne traducibili in una dicotomia ne organizzabili in una opposizione.

Libertà e indipendenza della professione
L’articolo 4 riguarda la libertà e l’indipendenza della professione vale a dire la base sulla quale poggia l’intera medicina ippocratica:
L’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione che costituiscono diritto inalienabile del medico.
Il medico nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche e ispirarsi ai valori etici della professione, assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona; non deve soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura.

Il medico deve operare al fine di salvaguardare l’autonomia professionale e segnalare all’Ordine ogni iniziativa tendente a imporgli comportamenti non conformi alla deontologia professionale”.
Questo articolo, fino ad ora, ha avuto un significato e una interpretazione inequivocabile ed era la regola aurea di tutto il codice, ma oggi, suo malgrado dopo le due radiazioni tradisce una imprevista ambiguità: esso può servire a giustificare sia le ragioni di coloro che hanno deciso le radiazioni sia le ragioni dei medici radiati.

Per la prima volta la libertà e indipendenza del medico può essere allo stesso tempo:
• una colpa da punire con la radiazione e un obbligo che tuttavia in quanto obbligo la contraddice
• ortodossia e eterodossia

Questa è la nuova contraddizione che certamente non saranno le condanne a morte a poter rimuovere.
Veniamo alla mia tesi: dalla analisi degli articoli citati, l’ortodossia, quindi la riga che segna il discrimine tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene e il male, coincide, in tutto e per tutto, con l’autonomia e la libertà del medico.

Essa non è definita in modo prescrittivo stabilendo tecnicamente cosa egli deve fare o non fare, ma è definita:
• con una logica proscrittiva (tutto quello che non è espressamente vietato si può fare sempre e comunque nell’interesse del malato)
• quale modalità cioè come modo di essere del medico quindi quale adeguatezza.
Definiamo la modalità: si intende l’insieme delle risorse (conoscenze, esperienze, sensibilità, responsabilità, credenze ecc) di un medico che caratterizzano il modo di essere medico , ovvero il suo comportamento, rispetto a un malato da curare.

Questa modalità dice come deve essere il medico, non cosa deve fare, stabilendo che:
• quello che fa deriva da come egli è
• dando per scontato che ogni medico agisce in scienza e coscienza
• che quello che fa è sempre e comunque rispetto alle sue convinzioni, alle sue conoscenze scientifiche e alle sue esperienze
• che il suo giudizio vale sempre davanti a casi concreti

Il codice deontologico:
• definisce il medico come professione modale
• dalla modalità esso fa dipendere la definizione di ortodossia.

Dando per acquisito che, la formazione di un medico, è quella documentata dai suoi titoli di studio, quindi dando per scontato l’esistenza di una conoscenza, l’ortodossia è un modo di essere razionali sagaci prudenti responsabili, davanti al caso da trattare, entro, certi contesti in certe situazioni e in certe contingenze.

Ne deriva che, (fatto salvo il principio dell’esclusione dell’assurdo, dell’abnorme, del comportamento criminale, della conoscenza pregiudizievole e preconcetta, della manifesta pericolosità e inattendibilità del medico) nessun medico è radiabile se egli in scienza e coscienza quindi sulla base di quello che sa che crede e di cui è convinto, ritiene di fare o non fare.

Ma perché il codice deontologico definisce il medico come una professione modale?
Perché i casi clinici individuali rispetto ai quali il medico, di volta in volta, decide la propria ortodossia, non sono finiti ma per definizione infiniti. Quindi per ragioni di complessità. Le ragioni della complessità sono tutte epistemiche.

Questa è la situazione descritta da Hempel con il suo celebre paradosso dei corvi (vedere wikipedia) e che ci dice una cosa importante;
• l’ortodossia nel codice deontologico non è una regola induttiva cioè generale e assoluta valida in quanto tale per tutti e in tutti i casi,
• ma è, al contrario, una regola modale che il medico in ossequio all’art 4 deduce caso per caso.

Ne consegue che, se il medico si attenesse all’art 4, egli non potrebbe che essere sempre ortodosso nel senso che la condizione che gli impone il suo codice deontologico è quella di essere adeguato al caso che deve giudicare.
Se il medico non è adeguato al caso automaticamente è fuori dall’ortodossia.

Ma se la riga come dice il codice è il modo di essere medico (escludendo l’assurdo e tutto il resto) che senso ha radiarlo infliggendogli la morte professionale?

La legittimazione dell’eterodossia
Fin dal 2002 la Fnomceo ha aperto le porte della propria ortodossia ad altri generi di ortodossie mediche definite come “medicine non convenzionali” (Linee guida sulle medicine e pratiche non convenzionali consiglio nazionale […] continua..  TESTO COMPLETO IN ORIGINALE