Acute inflammatory response via neutrophil activation protects against the development of chronic pain

Ricerca pubblicata su Science Translational Medicine, 11 maggio 2022

Una risposta infiammatoria acuta, tramite l’attivazione dei neutrofili, protegge il paziente dallo sviluppo del dolore cronico.

Bloccare un’infiammazione con farmaci, come l’ibuprofene, può determinare problemi più difficili da gestire, proprio come il dolore cronico.

Fonte: The Guardian
L’uso di farmaci come l’ibuprofene e gli steroidi per alleviare problemi di salute a breve termine, potrebbe aumentare le probabilità di sviluppare dolore cronico.

I risultati di questo nuovo studio, pubblicato a Maggio 2022 su Science Translational Medicine, indicano che potrebbe essere giunto il momento di riconsiderare il modo in cui viene trattato il dolore.

Il normale recupero da una lesione dolorosa comporta l’infiammazione – la reazione naturale dell’organismo a lesioni e infezioni – e questa nuova ricerca suggerisce che bloccare l’infiammazione con i farmaci potrebbe portare a problemi più difficili da trattare. È possibile che l’infiammazione acuta abbia un effetto protettivo, come impedire che il dolore acuto diventi cronico, ed è parimenti possibile che ridurla eccessivamente possa essere dannoso.

A scoprire che i farmaci antinfiammatori possono aumentare il rischio di dolore cronico è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati canadesi del Centro Alan Edwards per la ricerca sul dolore dell’Università McGill di Montreal, che hanno collaborato con i colleghi del Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Parma, del Dipartimento di Anestesiologia, Dolore e Medicina Palliativa dell’Università Radboud di Nimega (Paesi Bassi), dell’Università della Carolina del Nord, del Policlinico di Monza e di altri istituti.

Gli scienziati, coordinati dal professor Luda Diatchenko, docente presso la Facoltà di Odontoiatria e Scienze della salute orale dell’ateneo canadese, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato a fondo i meccanismi del dolore sia su pazienti che su modelli murini

Innanzitutto il prof. Diatchenko e i colleghi si sono concentrati sui granulociti neutrofili, un tipo di globuli bianchi specializzato nel proteggere l’organismo dalle infezioni ma che gioca un ruolo fondamentale anche nel dolore.

Analizzando l’attività genica in persone che utilizzavano antinfiammatori per combattere la lombalgia, gli studiosi hanno scoperto che nei malati guariti dal dolore i geni legati ai neutrofili erano sovraregolati, mentre non lo erano in quelli che presentavano dolore persistente alla fine del trattamento (di tre mesi). La stessa situazione è stata rilevata anche in persone con disturbo temporo-mandibolare, che provoca dolore ai muscoli associati alla mandibola e alle orecchie.

“I neutrofili dominano le prime fasi dell’infiammazione e preparano le basi per la riparazione del danno tissutale. L’infiammazione si verifica, quindi, per una ragione e sembra pericoloso interferire con essa”, ha dichiarato il prof. Jeffrey S. Mogil, coautore dello studio, nonché ricercatore sulla terapia del dolore e docente presso la McGill University in Canada.

Egli ha inoltre aggiunto: “Sebbene l’ibuprofene non sia stato studiato esplicitamente né nell’uomo né nel topo (nel topo abbiamo usato il diclofenac), poiché l’ibuprofene è di uso così comune nel Regno Unito, è altamente probabile che una grande percentuale di coloro che nella UK Biobanca del Regno Unito hanno dichiarato di assumere ‘FANS’ (farmaci antinfiammatori non steroidei) stessero in realtà assumendo ibuprofene”.

I ricercatori hanno detto che il dolore lombare è la forma più comunemente segnalata di dolore cronico – dolore che persiste più a lungo di quanto ci si aspetterebbe dopo l’infortunio – e comporta ogni anno ingenti costi economici e medici.

La maggior parte dei pazienti riceve trattamenti standard come farmaci antinfiammatori non steroidei come l’ibuprofene e i corticosteroidi. Ma questi farmaci sono solo in parte efficaci e poco si sa sul perché il dolore acuto, che inizia improvvisamente in risposta a qualcosa di specifico, si risolva in alcuni pazienti, ma persista come dolore cronico in altri.

Per comprendere il passaggio dal dolore acuto a quello cronico alla schiena, i ricercatori hanno seguito 98 pazienti con dolore acuto alla schiena per tre mesi.
Hanno inoltre esaminato i meccanismi del dolore nell’uomo e nei topi e hanno confermato che i neutrofili – un tipo di globuli bianchi che aiuta l’organismo a combattere le infezioni – svolgono un ruolo chiave nella risoluzione del dolore.

Il blocco di queste cellule nei topi ha prolungato il dolore fino a 10 volte la durata normale.

Anche il trattamento con farmaci antinfiammatori e steroidi come il desametasone e il diclofenac ha prodotto lo stesso risultato, anche se sono stati efficaci contro il dolore nelle prime fasi.

I ricercatori hanno, altresì, affermato che i risultati sono stati supportati da un’analisi separata di 500.000 persone nello studio UK Biobank, che ha mostrato che coloro che assumevano farmaci antinfiammatori avevano maggiori probabilità di avere dolore da due a 10 anni dopo. Questo effetto non è stato riscontrato nelle persone che assumevano paracetamolo o antidepressivi.

La dr.ssa Franziska Denk, docente senior presso il King’s College di Londra, ha dichiarato: “Sarebbe sicuramente prematuro fare qualsiasi raccomandazione riguardo ai farmaci delle persone fino a quando non avremo i risultati di uno studio clinico prospettico”.

A sua volta il Prof. Blair Smith, dell’Università di Dundee, ha dichiarato: “La teoria è che l’infiammazione possa avere un effetto protettivo a lungo termine e che ridurre eccessivamente l’infiammazione possa essere dannoso. “Tuttavia, è importante notare che questo è solo uno studio e che sono necessarie ulteriori ricerche per confermare e approfondire questi aspetti”.

I risultati sono pubblicati su Science Translational Medicine.

 

Comunicazione a cura di:
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