Prof. Ivan Cavicchi

Esiste la “verità” in medicina? Un processo al concetto e alla prassi delle “evidenze scientifiche”.

“L’evidenza scientifica in medicina, l’uso pragmatico della verità” è il titolo del mio nuovo libro appena uscito.

Le evidenze scientifiche, come leggerete nel libro, se avrete la compiacenza di leggerlo, pur essendo verità molto problematiche, hanno su di noi mortali il potere di vita e di morte di un dio, che, se usato male, se frainteso, se fallibile, o se impiegato in modo fazioso, poco saggio, o usato in modo ideologico, cioè in modo scientista, può fare disastri.

di Ivan Cavicchi

“L’evidenza scientifica in medicina, l’uso pragmatico della verità” è il titolo del mio nuovo libro (pagine 276) pubblicato da “Nexus edizioni” e disponibile sia in formato cartaceo che elettronico.

Da quel che mi risulta, è il primo lavoro, che ragiona in modo analitico approfondito e circostanziato sui delicati problemi epistemici che sempre si accompagnano in medicina, all’uso pratico delle evidenze.

Una “nozione chiave” che, fino ad ora, nella letteratura soprattutto clinica, ma non solo, anche metodologica e deontologica, è stata proposta sostanzialmente come una verità operativa di indiscutibile valore, alla quale:
– subordinare qualsiasi scelta clinica,
– adeguare le famose “condotte professionali”, quindi le prassi.

A scanso di equivoci, sia subito chiaro, che, pur con tutti i difetti, senza evidenze scientifiche:
– non si avrebbe una medicina scientifica,
– i medici e gli altri operatori, come nei secoli che furono, brancolerebbero nel buio e nell’incertezza rischiando di commettere errori a non finire,
– i malati sarebbero curati peggio e per di più rischierebbero maggiormente la pelle,
– in questa società, alla fine nessuno si fiderebbe di noi e della nostra medicina scientifica.

Quindi, sul valore paradigmatico dell’evidenza scientifica, come verità operazionale e come principale espressione della scienza medica, non si discute.

Quello che, in particolare oggi, si dovrebbe invece “doverosamente” discutere ma, secondo me, non si fa o si fa poco e male, è decidere:
– di che razza di verità si tratta,
– di come dovrebbe essere usata o non usata,
– della sua grande complessità epistemica, e quindi degli inconvenienti che essa comporta,
– dei suoi usi e dei suoi abusi, dal momento che attraverso di esse, si sospendono le libertà personali, si blocca il mondo, si decidono le possibilità di sopravvivenza dei malati, di fare o di non fare, quindi a proposito di denaro pubblico, di spendere o non spendere.

Insomma, le evidenze scientifiche, come leggerete nel libro, se avrete la compiacenza di leggerlo, pur essendo verità molto problematiche, hanno su di noi mortali, il potere di vita e di morte di un Dio, che, se usato male, se frainteso, se fallibile, o se impiegato in modo fazioso, poco saggio, o usato in modo ideologico, cioè in modo scientista, può fare disastri.

In sostanza, in medicina, “l’evidenza scientifica”, proprio perché è una complessa questione epistemica, è soprattutto una primaria questione morale e quindi politica.

Ma che cosa è l’evidenza scientifica? E’ molte cose, per le quali rimando al libro, ma essenzialmente tre:
– è una “verità convenzionale”, decisa da una comunità scientifica, seguendo un certo metodo sulla base delle conoscenze disponibili, necessariamente “standard” quindi estensibile, per induzione, con tutti i pregi e i difetti di questo genere di logica;

– è una “verità paraconsistente” cioè che può essere, a seconda dei casi e alla prova dei fatti, tutto e il contrario di tutto (vera o falsa, sia vera che falsa, né vera e né falsa, ecc.);

– è, o meglio dovrebbe essere, una relazione transitiva tra una “verità di ragione” e una “verità di fatto”, tra la medicina il medico e il malato, tra la scienza e la politica, tra la scienza e la società.

Prof. Ivan Cavicchi

Nel mondo della scienza, medicina compresa, il grande avversario dell’evidenza è la singolarità, nel nostro caso del malato, nel caso degli astrofisici dell’universo, la stessa che, nelle famose scienze esatte, (ricordo che la medicina non è una scienza esatta) ha indotto matematici, cosmologi, fisici, astronomi, chimici, a sostituire la nozione di “legge naturale” con quella di “costante naturale” che, altro non è, se non una sorta di “regolarità statistica”, accettando, ob torto collo, l’idea che una “costante”, è tale, fino a quando non incontra una singolarità a confutarla.

Se è vero, come scrive John D. Barrow (autorevolissimo astrofisico) che persino la legge di gravità di Newton in certi casi (singolarità) non è vera, cioè non è una legge, è impossibile che, in medicina, le verità convenzionali, pensate su certe “costanti” patologiche, siano inconfutabili alla luce delle infinite singolarità dei malati.

Per definizione ogni malato è singolare.
“Tutte le leggi di natura cesseranno di esistere in una singolarità” (*). Scrive in modo assai perentorio Barrow. “Tutte” vuol dire nessuna esclusa.

Quindi, le evidenze scientifiche, in medicina, esattamente come nell’universo, nel mondo sub atomico delle particelle, non dovrebbero mai essere considerate verità assolute o apodittiche ma, al contrario, verità relative a tutti quei fattori, individui, condizioni, contesti, contingenze che le possono compulsare.

Se ciò non fosse, la medicina, ma più in generale la scienza, sarebbe, nonostante i suoi presupposti positivisti, una metafisica e l’evidenza, esattamente come ci propone certa ebm, semplicemente una verità matematica.

Il problema epistemico, clinico, professionale, morale, politico, nasce quando i medici, gli esperti, le società scientifiche, gli ordini professionali, i consulenti del governo, gli amministratori della sanità, i politici persino, considerano:
– le evidenze scientifiche delle verità metafisiche
– le malattie come dei fenomeni naturali governati da leggi che non variano alle prese con l’immensa singolarità anche biologica con cui sono in relazione.

Che fare? Come usare in medicina le evidenze scientifiche e, nello stesso tempo, fare i conti con le infinite singolarità delle persone dei contesti, delle situazioni?

La mia proposta è nel sottotitolo del libro: “uso pragmatico delle verità” di cui siamo in possesso.
Gli ultimi due capitoli del libro (5/6) rispettivamente “pragmatica dell’evidenza” e “il medico pragmatico”, spiegano:
– il cambiamento paradigmatico necessario che serve per avere una medicina meno convenzionale e più pragmatica
– come deve essere un medico, o un qualsiasi altro operatore, per essere pragmatico e come andrebbe formato.

Ci sono tanti modi, oltre la vecchia soluzione della “verifica”, comunque “ex post”, che i medici attuali e gli studenti di medicina attuali non conoscono, per decidere “ex ante” se quello che scelgono di fare, davanti ad un malato singolare, è giusto o no, è, “adeguato” e non solo “appropriato”, oppure è opportuno, o plausibile, o consigliabile, o ancora, “escludendo l’assurdo”, come dicono i pragmatisti:
– “accettabile razionalmente”
– “epistemicamente ottimale”

Nel libro (pag 222) descrivo i principali presupposti della medicina pragmatica riassumendoli in 10 principi sintetici.
Tra questi i due principali da menzionare sicuramente, sono:
– la complessificazione da parte del medico della classica logica bivalente a due valori (“vero/falso” quindi “malato/sano”) che, in ragione della singolarità, diventa, molto più realista, quindi a tre valori o a più valori (“vero/falso/indecidibile”, quindi “malato/sano/qualcos’altro”). (**)

– il concetto di “risultato”, ma inteso non come semplice esito (exitus) ma come la conclusione logica di un ragionamento adeguato (non appropriato) alla singolarità del malato, di cui il medico è responsabile, cioè il principale “autore”.

Il “risultato” ben oltre le tradizionali “competenze”, nell’approccio pragmatico, diventa funzione del grado di autonomia e di capacità e di abilità intellettuale del medico che, proprio perché ha a che fare con verità paraconsistenti, con logiche polivalenti, con fenomeni singolari, con gradi notevoli di complessità, ecc ha il dovere certo di servirsi di evidenze ma soprattutto di ragionare con tutta la sua testa che, per questo, dovrà essere appositamente formata.

Oggi questa “pragmatica medica”, purtroppo, non rientra nei programmi di formazione universitaria che restano ancora molto troppo convenzionali e purtroppo troppo nozionisti. Qualcosa di simile si trova, nell’esperienza che gli operatori cumulano in decenni di professione, ma come pura conoscenza empirica soggettiva e personale.

Ma perché mai un medico, sulla propria pelle, da solo, nell’interesse del proprio malato, deve aspettare di avere i capelli bianchi, per essere libero di “reinterpretare” necessariamente la logica che gli hanno insegnato all’università?

Il punto: in medicina le evidenze al riparo dalla singolarità non sono molte quindi è inutile puntare sulla ricerca di una super-evidenza, o romperci la testa con complicati algoritmi, o peggio tornare a Cartesio come fa l’ebm, subordinando la clinica alla matematica, o obbligando i medici a comportarsi come dei “lineaguidari”.

Molto meglio, per il malato, e per la credibilità della medicina, è puntare:
– su delle belle teste pragmatiche (le “teste ben fatte” di Montaigne poi riprese da Morin),
– su un altro genere di operatore, un autore competente di malattie, di sicuro, ma anche capace di pensare il proprio malato nelle sue singolarità, scommettendo sulla sua autonomia e sulla sua responsabilità.

Tutti dicono che, al medico, bisogna dare più autonomia, ma se, in prima istanza, essa non è soprattutto una autonomia intellettuale, a che diavolo serve? Per agire secondo “scienza” l’autonomia serve poco, ma per agire nei confronti della singolarità secondo “coscienza” serve eccome. Formare un medico all’uso delle evidenze non è un problema (non si fa altro) ma formarlo ad avere anche nei confronti delle evidenze una maggiore autonomia intellettuale è un altro paio di maniche.

E’ inutile dire che, se esiste una “questione medica” o se si preferisce una “questione professionale”, e se l’evidenza scientifica è la rappresentazione, sul piano epistemico di un certo modo di essere, di pensare, di fare degli operatori, va da sé, che le due cose sono strettamente interdipendenti.

La “questione professionale”, come sa bene la Fnomceo, non si risolve a tarallucci e vino, cioè a modello di medicina e di sanità invariante, ma riformando soprattutto i principali criteri che guidano organizzano e retribuiscono le prassi o come a me piace dire “l’opera”.

Per chiudere, una domanda “prosaica”: se, di fronte alla complessità e/o singolarità del malato, che nessuna evidenza scientifica può governare da sola, chi cura non cambia, il modo “classico” di essere, di ragionare, di fare, quindi di lavorare, perché dovremmo ripensarne, come ormai dicono in tanti, la formazione, lo statuto giuridico, accettando di considerarle professioni impareggiabili e, alla fine, pagarle almeno il doppio di quello che guadagnano, cioè ricapitalizzarle? Se le prassi, prima di tutto intellettuali, resteranno invarianti resterà invariante anche l’opera, ma se l’opera non cambia allora a che serve cambiare tutta questa roba?

Ivan Cavicchi

Fonte: QuotidianoSanità

 

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