Prof. Piero Dominici

Prof. Piero Dominici

Non possiamo più accontentarci di formare tecnici: abbiamo un disperato bisogno di figure con una preparazione ampia e articolata, che riescano a coniugare la formazione scientifica e quella umanistica. Sapendo mantenere la prospettiva sui sistemi e sull’insieme.

Piero Dominici spiega come – ma soprattutto perché – ripensare i nostri sistemi formativi per gestire le sfide della complessità

Fonte: Vita.it del 9 Giugno 2017

Ci sono intellettuali che hanno la capacità di sintetizzare le loro riflessioni in definizioni icastiche.

Piero Dominici è uno di quelli.

È docente universitario e formatore professionista, insegna Comunicazione pubblica e Attività di Intelligence e interesse nazionale presso l’Università degli studi di Perugia, è Visiting Professor presso l’Universidad Complutense di Madrid e ha un blog su Nòva de Il Sole 24 Ore, dal titolo “Fuori dal Prisma”.

Il professore nel numero del magazine di giugno [Vita.it] si è confrontato con noi sui temi del lavoro e del mismatch, della preparazione dei giovani, di come scuola e università debbano cambiare non tanto per stare al passo di ciò che il mercato del lavoro chiede ma per stare al passo di una realtà nuova, segnata dall’ipercomplessità.

Una manciata di sue frasi sono già spunto per tanti pensieri: «Dobbiamo insegnare a vedere, osservare e interpretare gli “oggetti” come “sistemi” e non viceversa i sistemi come oggetti» oppure dobbiamo «ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico». O ancora: «Tutti oggi parlano di competenze e di “saper fare”, ma il “saper fare” senza il “sapere” ci porta a “fare le cose” come sono sempre state fatte, perché farle in quel modo ha funzionato e continua a rassicurarci di fronte all’imprevedibilità ed all’indeterminatezza del reale».

Ma anche «nella società ipercomplessa non sono più sufficienti il “sapere” o il “saper fare”: dobbiamo “sapere”, dobbiamo “saper fare”, ma dobbiamo anche “saper comunicare il sapere” e “saper comunicare il saper fare”».

Il futuro, per il professore, «è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali». E la sola citazione che si concede, in questa lunga intervista, è preziosa: «Max Weber diceva che il mercato, se lasciato alla sua autonormatività, conosce soltanto una dignità della cose e non una dignità della Persona. Questa è la sfida ulteriore. Ecco perché è necessario e urgente mettere mano all’educazione e alla formazione».

Il succo potrebbe anche essere qui, ma fermarsi qui sarebbe davvero un peccato. Perché per capire come devono cambiare istruzione e formazione per rispondere alle sfide di una società ipercomplessa bisogna partire dall’inizio, dal comprendere perché devono cambiare.

Professore, cominciamo dall’inizio: gli esperti dicono che siamo in un’epoca nuova, che non si è mai vista nella storia. Non si tratta solo di cambiamenti rapidi, ma del fatto ad esempio che siamo per la prima volta in un’epoca sviluppo esponenziale, non più lineare. Per questo ci dicono che per governare i processi di questa epoca nuova serve un cambio di paradigma. Ma che cos’è esattamente la novità della nostra epoca? Che cos’è l’ipercomplessità?

Possiamo partire dal presupposto che la complessità è una caratteristica strutturale/connaturata ai gruppi umani, alle relazioni, al sistema sociale, persino al mondo biologico e degli oggetti, pur se con alcune differenze. Per ciò che riguarda il mondo degli oggetti, potremmo parlare di sistemi complicati più che complessi, dal momento che siamo in grado di scomporne e analizzarne le parti per comprenderne il comportamento e il funzionamento.

Si tratta di fenomeni e processi sostanzialmente lineari e, in qualche modo, prevedibili e replicabili.

La complessità che riguarda, in modo particolare, la società, le organizzazioni e i gruppi umani (con qualche sfumatura, anche i sistemi biologici) è una complessità del tutto particolare, perché non riconducibile né interpretabile sulla base di modelli lineari (causa-effetto, stimolo-risposta).

Si tratta, pertanto, di una complessità imprevedibile – la questione della prevedibilità, non soltanto dei comportamenti umani, sociali, culturali è cruciale e strategica (i modelli culturali servono anche a questo) – e non replicabile (la replicabilità, come noto, è requisito importante per la scienza e per poter anche soltanto parlare di “scientificità”) di cui dobbiamo osservare e comprendere soprattutto i molteplici livelli di connessione tra i processi e tra le parti/gli oggetti stessi e, per farlo, abbiamo bisogno di una visione sistemica dei processi, dei fenomeni e delle dinamiche: visione sistemica che comporta un modo completamente differente di osservare gli “oggetti”. Non solo osservare l’insieme e il tutto, consapevoli, in ogni caso, che il tutto non è mai la somma e/o la totalità delle parti.

Ma c’è un ulteriore elemento di complessità: il fatto cioè che siamo di fronte a sistemi complessi adattivi, capaci di modificarsi per soddisfare nuove condizioni e/o requisiti. Sono sistemi le cui parti costituenti non sono “inanimate”, passive, neutrali, reagenti soltanto a certi stimoli in maniera prevedibile; sono individui, entità, relazioni che costantemente contribuiscono a cambiare e a co-creare le condizioni dell’interazione, dell’ambiente di riferimento, dell’ecosistema di cui fanno parte.

Se osserviamo una organizzazione sociale, ma anche semplicemente un insieme o un gruppo di persone, non solo la totalità delle persone non costituisce il tutto, non solo non potrò capire le dinamiche di quel gruppo isolando le persone o circoscrivendo il campo di osservazione; ma dovrò prendere atto che quelle stesse persone/individui/entità costantemente contribuiscono a modificare – o a co-creare, co-costruire – l’ambiente sociale in cui sono immerse.

E la mia stessa presenza, la mia stessa osservazione modifica le condizioni e i livelli di interazione, scambio, condivisione. Se voglio davvero osservarne e comprenderne le relazioni e le dinamiche in continua evoluzione, devo osservare l’insieme, la globalità, le connessioni, le relazioni sistemiche.

Necessario – oltre alla visione sistemica, cui si è accennato – un approccio interdisciplinare e multidisciplinare. Perché sono gli “oggetti”, le variabili, le tipologie di connessioni a richiederlo! […]

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Fonte: Vita.it del 9 Giugno 2017